È di questi giorni la notizia che il manoscritto di De Sade, “Le 120 giornate di Sodoma”, tornerà a dimorare a Parigi, sua patria natale. Testo quantomai controverso e discusso, affascina la consapevolezza che quest’uomo, imprigionato nella Bastiglia, abbia utilizzato il tempo lì trascorso a scrivere anziché occuparsi di qualsiasi altra cosa. Tra l’altro doveva farlo di nascosto e questo incuriosisce ancora di più: perché tanta ostinazione nello scrivere un testo, che rimane ancor oggi tra i più osceni, con tanta ostinazione? Il testo è steso su un rotolo composto da più fogli uniti insieme, tentativo rurale di creare un materiale scrittorio utilizzabile. La leggenda vuole che quando gli sottrassero la penna, scrivesse con il sangue.
C’è una certa magia in una pagina vergata da uno scrittore famoso. È un fascino che possiamo trovare, in parte, nei libri medievali copiati dai frati amanuensi. Si ha l’impressione che i pensieri, dello scriba o dello scrittore, siano stati molti di più e molto diversi rispetto a quelli che troviamo in lettura. Nei manoscritti di libri famosi, poi dati alle stampe, ritroviamo l’idea dell’opera creativa come fosse scolpita nella pietra prima di essere stesa su carta. Le parole sono leggere, sensibili, impalpabili: ma tra i due elementi, pietra e parola, quale veramente dura di più?
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