Nel 1991 un professore di letteratura alla University of Massachusetts Dartmouth, Robert Waxler, avvio un programma di biblioterapia destinato ai detenuti che beneficiavano di misure alternative al carcere e che non avessero commessi reati di stupro o omicidio. L’obiettivo era di dimostrare come tale attività potesse ridurre le recidive a delinquere. Nel 1993 si ottennero i primi risultati confrontando il gruppo che si dedicava all’attività di biblioterapia con un gruppo di controllo. Il tasso di recidiva nel gruppo di biblioterapia era del 19% mentre quello del gruppo di controllo era del 45%. Da allora il programma denominato CLTL (Changing Lives Through Literature) è stato diffuso in diversi Stati federali e continua a essere motivo di studio e interesse. Using Bibliotherapy to Enhance Probation and Reduce Recidivism è il titolo di un articolo del 2013 che descrive l’attività e porta nuovi risultati per migliorare quella che in molti Stati è diventata una consuetudine. Ma cosa prevede esattamente questo programma? Come dicevamo, possono partecipare solo coloro che non hanno commesso crimini violenti. Essi devono impegnarsi a frequentare regolarmente il gruppo e devono partecipare attivamente alle discussioni. La frequenza è di una o due volte la settimana per otto/dodici settimane. Sono inseriti nel gruppo, oltre al biblioterapista, un giudice e/o un agente di sorveglianza. I biblioterapisti sono solitamente professori universitari e l’attività viene svolta negli atenei, in alcuni casi all’interno di tribunali. I gruppi sono divisi per genere sessuale. In alcuni casi vengono assegnati compiti scritti per casa.
La descrizione può indurvi a pensare a un’attività scolastica. Ma la biblioterapia è ben diversa. La letteratura è scelta su misura dei partecipanti. Essi imparano a usare le parole anziché le azioni nel manifestare il proprio disaccordo. Non vengono giudicati per il rendimento scolastico. La loro opinione su un testo letterario è presa in considerazione, al di là della loro capacità critica o filologica. La possibilità di entrare fisicamente in un’università e recarsi a svolgere un lavoro che non è fisico, ma intellettuale, aumenta la loro autostima. Possono identificarsi con personaggi e situazioni simili a loro, ma che hanno risolto i loro problemi in modo diverso, e in questo modo intravedere una via alternativa per la propria vita.
L’articolo rileva anche delle criticità, ma conferma anche le raccomandazioni del National Institute of Corrections del 2005 che affermano la necessità di inserire programmi riabilitativi anziché limitarsi alla detenzione.