La parola Bibliodiversità mi è piaciuta da subito, perché comprende le cose che amo di più in assoluto: i libri e le differenze. Non mi piacciono quelli che tendono a uniformarsi. E io non piaccio a loro.
Il termine è stato coniato da un gruppo di editori indipendenti cileni verso la fine degli anni Novanta del Novecento. Per Bibliodiversità si intende la pluralità di libri prodotti da case editrici diverse e, quindi, con differenti concetti editoriali, di selezione e di scrittura. Preferire la Bibliodiversità significa cercare di crescere come lettori cercando di leggere differenti tipologie di libri. Nulla di male a chi preferisce restare nell’alveo sicuro dello stesso tipo di prodotto letterario. Conosco lettori che addirittura non passano a un secondo scrittore finché non hanno letto tutto quello che ha scritto il primo. Ma la possibilità di spaziare deve esistere ed essere preservata. Per garantirla è necessario che le piccole case editrici possano sopravvivere alla prepotenza di quelle più grandi. Il che non è affatto scontato. La scomparsa della Bibliodiversità significherebbe che le espressioni culturali minori sarebbero cancellate, con gravissimo danno per l’evoluzione intellettuale e il mantenimento della conoscenza libera e indipendente. Significherebbe anche lasciare che sia l’economia a decidere quale cultura è degna di sopravvivere e quale no.
Se volete saperne di più, qui trovate la Dichiarazione Internazionale degli Editori Indipendenti del 2014 che ne sancisce le caratteristiche.
Ora lo confesso: pubblicizzo la bibliodiversità per interesse. Tendo a leggere tanti autori diversi e generi assolutamente differenti tra loro. Posseggo libri di case editrici mai sentite nominare e autori semisconosciuti. Ma amo anche autori famosi e libri di facile consumo. Vi prego:lasciatemi essere diverso.