La parola Shoah, ma anche Olocausto o Ebreo, non sono mai appartenuti al mio vocabolario finché non l’ho studiato. Ho avuto la fortuna di crescere con nonna Gina, nata nel 1913, che amava raccontare la sua giovinezza. E ho avuto anche la gioia di acquisire quella di mia moglie, nonna Rosetta, nata nel 1924, che è riuscita a essere testimone del passato per i miei figli. Non ho mai finito di stupirmi dei loro racconti sulla guerra. E non ho mai finito di stupirmi per l’assenza della questione ebraica in essi.
Nonna Gina narrava di un desiderio di battaglia urlato al cielo dagli uomini davanti al Duce, mentre attraversava la piazza affollata, tenendo tra le mani un ventre gravido e scuotendo la testa per l’insensatezza dei maschi. Nella mia famiglia non c’erano posizioni politiche, solo desiderio di sedare una fame che non si riusciva mai a placare e tutto quello non aveva senso.
I racconti di nonna Rosetta, invece, erano diversi: un padre che manifestava la propria adesione alla democrazia tenendo in testa il cappello durante i comizi fascisti, che gli fecero togliere con la forza; una madre che la mandava nel bosco a portare viveri agli inglesi nascosti in una baracca, utilizzando la ragazzina per non destare sospetti e con grande rischio; le sue corse lungo le rotaie per raccogliere quei biglietti lasciati cadere dal treno dai deportati su cui erano scritti degli indirizzi a mandava lettere, per riferire alle famiglie che i loro cari erano passati di lì (la via verso il Brennero della zona di Dolcé).
I loro racconti erano privi di ebrei conosciuti e deportati, ma la consapevolezza che qualcosa di mostruoso nel Paese stava accadendo c’era. La descrizione dei soprusi fascisti in entrambi i casi era inequivocabile e i racconti di uomini trascinati via con la forza chissà dove venivano continuamente evocati. Ma che in qualche caso si trattasse di ebrei non l’ho mai sentito. Eppure il senso di giustizia, di uguaglianza e di solidarietà in queste due donne non è mai venuto meno.
Oggi l’ansia dell’invasione, dell’arrivo dello straniero, il timore di chi non è uguale a noi, sembra reintrodurci in quei tempi bui. L’evocazione da parte di alcuni di una possibile nuova forma di discriminazione simile a quella ebraica non mi colpisce molto. Mi colpisce il differente atteggiamento di queste donne che hanno vissuto i tempi più bui confrontato con quello nostro oggi. Da parte loro non ho mai percepito nessuna paura serpeggiante e nessuna forma di esasperazione, che oggi sembra la regola. Eppure avevano i pregiudizi di chi proviene da un’altra epoca. Nonna Gina contrattava il costo delle lenzuola dal “vu comprà” che passava a casa sua senza che mai l’avessi sentita esprimere giudizi razzisti di alcun tipo. Nonna Rosetta era un concentrato di altruismo: per lei certe cose non erano neppure immaginabili.
La Shoah di ieri potrebbe ripresentarsi oggi? Se tutti noi imparassimo dall’esperienza delle nostre nonne, certamente no! Se…
In questa Settimana della Memoria invito tutti a trovare il tempo per fermarsi a parlare con gli ultimi testimoni di quell’epoca: nonni, zii o amici. Non c’è scuola e non c’è evento che possa sostituire questo tipo di narrazione.