E’ stranissimo lavorare in questi giorni in ospedale. Al consueto lavoro, si aggiunge il coronavirus cui pensare, e non è facile. Anche se opero in ambito cardiologico, sono consapevole che i casi sospetti potrebbero giungere anche lì. Ma sapete qual è la nostra (mia e dei miei colleghi) preoccupazione principale? Di dover essere messi in quarantena e dover costringere alla stessa sorte i nostri familiari. Mettere a rischio la loro libertà e, Dio non voglia, la loro salute. Sì, perché agli operatori sanitari non è concesso avere paura per se stessi. E’ straniante leggere i post che definiscono infermieri e medici come eroi: e fino adesso? Davvero qualcuno pensa che finora non abbiamo mai fatto i conti con altre malattie infettive? Nel 1996 nasceva il mio primo figlio e lavoravo in geriatria. Ci fu un caso di sospetta tubercolosi e di lì a qualche giorno avrei dovuto entrare in sala parto con mia moglie. Se il caso fosse stato confermato, sarei potuto andare comunque? E se fossi stato contagiato nel frattempo? E se fosse accaduto dopo, a casa con il bambino piccolo cosa avrei dovuto fare? Tra l’altro avevo 25 anni e gestire certe emozioni non era certo facile. Ma la vita dell’infermiere è questo, sempre. Siamo preoccupati per noi stessi, ma lo siamo molto di più per quelli che ci stanno accanto. Tra il 1991 e il 1992 ho lavorato per un anno nel reparto di Malattie Infettive nella sezione dei malati di Aids. In quegli anni non c’erano cure efficaci come oggi e si sapeva ancora poco. Avevo 20 anni. E’ stata durissima. Da allora sono passati 29 anni e di cose da raccontare ne avrei ancora tante. Per fortuna i libri erano con me. Per capire meglio quella nuova malattia lessi Più grandi dell’amore di Dominique Lapierre. Ma ero anche nel periodo di Ken Follet: I pilastri della terra, Una fortuna pericolosa, Un luogo chiamato libertà. Non avete idea di quanto sia stato benefico tuffarsi in periodi storici diversi dal mio per sedare l’ansia. Forse è per questo (o magari è il caso) che in questo periodo sto leggendo Augustus di John Williams: visitare il tempo aiuta a rilassarsi, ne sono convinto. L’ho quasi finito e temo quando dovrò chiuderlo.
Coronavirus o no, continuo a distribuire libri tra i miei pazienti. Sono andato in crisi qualche giorno fa perché uno di loro mi ha chiesto specificatamente libri di fantascienza. Tra tutti quelli che avevo non riuscivo a trovarne uno. Adesso mi sto attrezzando per procurarne qualcuno: deludere un lettore nel suo letto d’ospedale mi addolora troppo.
In questi giorni i riferimenti a Cecità di Saramago e al trentunesimo capitolo de I promessi sposi del Manzoni si sprecano. Servono a capire i comportamenti collettivi, non ho dubbi. Ma io vi invito invece a leggere maggiormente per il vostro semplice piacere. Le disposizioni mediche le forniscono i sanitari. I lettori hanno, invece, il compito di spostare il loro pensiero e favorire la diminuzione dell’ansia collettiva, che sta danneggiando molto più del virus. E per ricordarvelo, utilizzate un mantra che, vi garantisco, può rivelarsi molto utile. Mi riferisco a quello contenuto nel primo libro de Il trono di spade in cui alla giovane Arya Starks viene insegnato: “La paura uccide più della spada”. Mai come oggi questo è vero.