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Perché le condanne a morte non hanno senso

 

La notizia dell’uomo giustiziato oggi, a 40 anni, per un delitto commesso a 17 (qui l’articolo) mi sconvolge. Ma mi sconvolge ancora di più che altre condanne a morte saranno eseguite affinché l’amministrazione Trump sia quella con il maggior numero di esecuzioni da 130 anni a questa parte. Ma che senso ha? Che senso ha condannare a morte dei minorenni? E’ già stato dimenticato il giovane quattordicenne condannato e ucciso nel 1944 e nel 2014 redento perché le prove hanno dimostrato a distanza che era innocente (qui l’articolo)?

Ci sono dati che indicano come le condanne a morte e il giustizialismo a ogni costo che vige in USA non riduca i crimini. Nel libro Il diritto di opporsi di Bryan Stevenson è ben documentato questo, come è ben documentato il business della costruzione delle carceri e della loro gestione. Nulla a che vedere con le attività necessarie per ridurre i crimini. Abolire il carcere di Manconi, Anastasia e Calderone snocciola ulteriori dati ragionando su ciò che viene fatto nel nord Europa, dove si cerca di lavorare non per stereotipi, ma per evidenze scientifiche. E leggendolo, possiamo scoprire che per ridurre la reiterazione dei reati serve ben altro che il carcere, necessario per i reati più seri e per i soggetti pericolosi, mentre per altri si lavora per riportarli in società, desiderosi di farne parte.

Mi riesce impossibile capire come, di fronte a dati oggettivi, molti continuino a manifestare il desiderio di vedere instaurata anche da noi la condanna a morte. Lo capisco, certi criminali la meriterebbero e, come molti, probabilmente anch’io non mi turberei più di tanto per loro. Ma è un dato di fatto che questo non riduce i reati. E il mio desiderio è per un  mondo più sicuro, non per la vendetta più soddisfacente.

Se nel 1764 il nostro Cesare Beccaria nel suo Dei delitti e delle pene si poneva molti dubbi, perché oggi siamo a questo?

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