Tralascio il consueto ordine cronologico, seguito fin qui, per trattare una parte pressoché sconosciuta della biblioterapia: la sua applicazione in Italia nel Diciottesimo secolo. Ebbene sì, c’è stato chi, nella penisola non ancora unita, attento e lungimirante, capì che la lettura poteva essere benefica. Si trattava di un uso non codificato, un semplice utilizzo a scopo di svago e riflessione, ma in un ambito clinico con obiettivi curativi. Il medico cui attribuire tale merito è Vincenzo Chiarugi. Operò in Italia centrale, soprattutto nella zona di Firenze. Fu tra i primi al mondo a fondare una clinica psichiatrica, la “San Bonifazio” in cui fossero vietati i trattamenti disumani, al tempo diffusissimi, e abolì l’idea che le malattie mentali fossero legate a possessioni demoniache o ad altre menifestazioni esoteriche (Oriana Fallaci ne accenna in Un cappello pieno di ciliege). Il trattamento che prescriveva ai suoi pazienti era una dieta ricca e nutriente in un ambiente stimolante dove mai veniva usata la forza bruta, stando in un ospedale dove non vi erano inferriate alle finestre né alcun mezzo contenitivo. E’ in tale condizione che anche i libri erano utilizzati come sostegno per i pazienti.
Lo sappiamo: nessuno è profeta in patria, e così è per Chiarugi che mai viene citato in Italia per il fatto di essere precursore della biblioterapia. Citare gli inglesi e gli americani è più facile (la loro documentazione e la loro esperienza sono infinitamente più ricche delle nostre) e più di tendenza. Al contrario, nei loro testi che parlano della storia della biblioterapia nel Diciottesimo secolo è costante la citazione di Vincenzo Chiarugi in Italia, di Philippe Pinel in Francia e di William Tuke in Inghilterra quali pionieri assoluti della biblioterapia moderna. E’ un chiaro riconoscimento storico, un giusto ringraziamento per quanti hanno saputo rivoluzionare in diversi modi la cura della malattia psichiatrica, riuscendo anche a indicare la strada che noi biblioterapisti ancor oggi stiamo percorrendo.